Il sistema fiscale italiano ha subito profonde trasformazioni dal 1861 a oggi. Dall’Unità d’Italia in poi, i governi hanno introdotto e modificato numerose imposte dirette e indirette, adeguando il fisco ai mutamenti economici, sociali e politici del Paese. In questo articolo passeremo in rassegna, periodo per periodo, l’evoluzione del sistema tributario italiano: dal Regno d’Italia liberale al regime fascista, dal dopoguerra e boom economico alla grande riforma fiscale del 1973, dalle riforme degli anni ’90 fino alle più recenti misure post-2000. Verranno illustrate le principali imposte introdotte (come IRPEF, IVA, IRES, accise, IMU ecc.), le grandi riforme tributarie (Vanoni, riforma del 1973, interventi di Tremonti, Berlusconi, Renzi, Draghi) e il ruolo centrale della evasione fiscale – autentico “male” storico dell’Italia – con le misure adottate nel tempo per contrastarla (dal redditometro al spesometro, fino alla fatturazione elettronica). L’analisi metterà in luce anche le implicazioni economiche e sociali del sistema fiscale nei vari periodi, tra esigenze di bilancio pubblico, equità sociale e sviluppo economico.
Regno d’Italia (1861-1922): prime imposte unitarie e pareggio di bilancio
Con la nascita del Regno d’Italia nel 1861 si pose subito l’esigenza di unificare i sistemi tributari dei vari Stati preunitari e reperire risorse per il nuovo Stato. Nei primi anni post-unitari, furono estese a tutta la nazione le imposte vigenti nel Regno di Sardegna (piemontese), come le tasse di registro, bollo e ipoteca, sostituendo molti dazi locali. Nel 1864 fu introdotta la prima imposta generale sui redditi, l’Imposta di Ricchezza Mobile, che colpiva i redditi non agrari con aliquota unica dell’8%. Si trattava di un antesignano dell’IRPEF, sebbene proporzionale (senza scaglioni progressivi) e basato sull’autodichiarazione dei redditi presentata dal contribuente al proprio comune. Contestualmente restavano in vigore le imposte dirette “reali” su terreni e fabbricati, ereditate dal sistema sabaudo.
La Destra storica al potere (1861-1876) perseguì il rigore di bilancio introducendo tributi impopolari ma efficaci. Simbolo di questo periodo fu la “tassa sul macinato” (1868), imposta indiretta sulla macinazione dei cereali, concepita per aumentare il gettito in un periodo di forte deficit. Grazie anche a prelievi del genere, l’Italia raggiunse il pareggio di bilancio nel 1875 sotto il governo Minghetti. Tuttavia, queste misure pesarono soprattutto sui ceti popolari (la tassa sul macinato colpiva i consumi alimentari di base) e suscitarono forti proteste sociali, evidenziando già in età liberale il tema dell’equità fiscale. La Sinistra storica (dal 1876) abolì la tassa sul macinato e ridusse l’imposta fondiaria sui terreni, ma compensò con altre imposte indirette (nuovi dazi doganali, imposte di fabbricazione su beni di consumo, aumento delle gabelle locali). In questi decenni prevalse dunque la tassazione indiretta e regressiva, gravante sui consumi popolari, mentre le imposte dirette coprivano solo circa un quarto del gettito a fine ’800. Questa struttura squilibrata penalizzava i meno abbienti e incentivava l’evasione fiscale, all’epoca dilagante e difficilissima da contrastare con gli strumenti amministrativi allora disponibili.
Sul finire dell’età liberale, nonostante qualche tentativo di aggiornare catasti e imposte, il sistema tributario restava antiquato e insufficiente rispetto alle crescenti spese pubbliche (infrastrutture, esercito, istruzione). Alla vigilia della Prima guerra mondiale (1914) l’ordinamento fiscale italiano era ancora fondato sulle leggi del 1864-65 e imperniato su poche imposte dirette proporzionali (terreni, fabbricati, ricchezza mobile), mentre il grosso del gettito proveniva da imposte indirette (dazi, monopoli di Stato su sali e tabacchi, tasse di consumo). Ciò implicava una pressione fiscale relativamente bassa sui redditi alti e un peso maggiore sui consumi di massa, con implicazioni sociali importanti: lo Stato incassava poco dalle élite agiate, mentre i ceti popolari sopportavano il costo di imposte indirette su beni essenziali. Questa situazione contraddiceva il principio – già enunciato nello Statuto Albertino del 1848 – della contribuzione “in proporzione ai propri averi” da parte di tutti i cittadini, ed evidenziava la necessità di una maggiore progressività nel prelievo fiscale (poi sancita dalla Costituzione repubblicana).
Il periodo fascista (1922-1945): riforma De Stefani, tasse di guerra e primo patrimoniale
L’avvento del fascismo portò a una significativa riforma tributaria nel 1923. Il ministro delle Finanze Alberto De Stefani varò una revisione generale del sistema fiscale, introducendo per la prima volta un’imposta complementare progressiva sul reddito delle persone fisiche. In altre parole, accanto alle imposte “reali” proporzionali (ricchezza mobile, terreni, fabbricati), venne istituita un’imposta personale e progressiva che colpiva il reddito globale dell’individuo, con aliquote crescenti per scaglioni. Questa fu la prima applicazione concreta del principio costituzionale (ancora di là da venire) della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione. Inoltre, sempre nel 1923, De Stefani introdusse una nuova tassa sugli scambi (un’antesignana dell’IVA) sui passaggi di beni, per accrescere il gettito del fisco centrale. Nel complesso, la pressione fiscale aumentò negli anni ’20 e il sistema divenne leggermente più equo rispetto all’età liberale, sebbene le disparità restassero marcate e l’onere tributario continuasse a gravare in modo relativamente maggiore su lavoro e agricoltura rispetto ai redditi di capitale.
Durante il fascismo, il fisco fu utilizzato anche come strumento di ingegneria sociale e di finanziamento del riarmo. Un esempio emblematico fu la “tassa sul celibato” introdotta nel 1927: un’imposta speciale che colpiva gli uomini non sposati (25-65 anni) per incentivarli al matrimonio e stimolare la natalità, in linea con la demografia di regime. Parallelamente furono concessi sgravi fiscali e premi alle famiglie numerose, sempre per favorire le nascite. Si trattava di misure che riflettevano obiettivi ideologici più che logiche di gettito, ma che comunque incidevano sul rapporto tra cittadini e fisco.
Per fronteggiare i costi crescenti dello Stato corporativo e poi della guerra, il regime introdusse nuove imposte. Nel 1940, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, venne istituita l’Imposta Generale sulle Entrate (IGE), un’imposta sui consumi che sostituiva la precedente tassa sugli scambi e colpiva una vasta gamma di transazioni, inclusi i servizi. L’IGE – destinata a durare fino al 1973 – può essere vista come la progenitrice dell’IVA, sebbene con meccanismi diversi (era un’imposta cumulativa a cascata). Sempre nel 1940 il governo fascista impose un’imposta straordinaria sul patrimonio: di fatto il primo “patrimoniale” italiano, mirato a tassare i patrimoni privati per esigenze belliche. Queste nuove imposte riflettevano l’urgenza di reperire risorse per finanziare lo sforzo bellico, ma accentuarono la pressione sui contribuenti. Tra le altre curiosità fiscali del ventennio va ricordata anche l’introduzione delle accise sui carburanti: già nel 1921-1923 comparvero le prime imposte di fabbricazione sulla benzina, poi aumentate negli anni ’30 per finanziare eventi come la guerra d’Etiopia del 1935 (l’Italia aggiunse un balzello sul carburante destinato a coprire i costi dell’impresa in Africa). Molte di queste accise “temporanee” vennero mantenute nel dopoguerra e confluiranno nelle accise unificate sui carburanti ancora vigenti (dal 1995 esiste un’accisa unica che ha assorbito la lunga lista di micro-prelievi storico-emergenziali). Ciò spiega perché parte del prezzo dei carburanti in Italia è tuttora dovuto a imposte introdotte in contesti storici ormai lontani (guerre, calamità, crisi energetiche), rendendo le accise tra le imposte più longeve e meno amate.
Sul piano sociale, durante il fascismo il sistema fiscale rimase iniquo e sperequato. La progressività introdotta da De Stefani fu mitigata da esenzioni e da un’alta evasione, mentre l’aumento delle imposte indirette gravò sui consumi popolari. L’evasione fiscale restava elevata, favorito anche da un’amministrazione finanziaria non indipendente e piegata alle esigenze del regime. Inoltre il regime spesso preferì strumenti autoritari e straordinari (confische, “prestiti forzosi”, svalutazioni monetarie) per fare cassa, più che costruire un rapporto trasparente fisco-contribuente. Nel complesso, all’alba del 1945, l’Italia usciva da vent’anni di dittatura con un fisco ancora arretrato, fortemente squilibrato verso i consumi e incapace di garantire quell’equità orizzontale e verticale che sarà invece postulata dalla nuova Costituzione repubblicana.
Dal dopoguerra al boom economico (1946-1960s): Costituzione, Vanoni e sviluppo
Con la nascita della Repubblica Italiana e la promulgazione della Costituzione (1948), furono posti principi fondamentali in materia fiscale che avrebbero guidato le riforme successive. L’art. 53 della Carta stabilì infatti che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva” e che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Inoltre, l’art. 23 sancì la riserva di legge in materia tributaria (nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base a una legge), rafforzando il principio di legalità. Questi dettami costituzionali rispondevano all’esigenza di rendere il fisco più equo e democratico, dopo decenni di sistemi percepiti come oppressivi o ingiusti. Tuttavia, attuare concretamente tali principi richiese tempo: nei primi anni ’50 il sistema fiscale era ancora quello ereditato dallo Stato liberale e fascista, basato sulle imposte dirette reali e su un’imposta complementare limitata, con un’evasione altissima. Si stima che a inizio anni ’50 le imposte dirette coprissero appena il 25% delle entrate tributarie dello Stato, mentre il grosso era ancora costituito da imposte indirette (che pesavano proporzionalmente di più sui redditi bassi). Questa situazione era in contrasto con l’ispirazione costituzionale, poiché la prevalenza dell’imposizione indiretta penalizzava i più poveri e spingeva molti contribuenti all’evasione (ritenuta quasi “necessaria” o comunque non sanzionabile efficacemente).
Una prima importante svolta si ebbe con la riforma Vanoni del 1951. Il ministro delle Finanze Ezio Vanoni promosse una legge di “perequazione tributaria” (l. 25/1951) che mirava ad allargare la base dei contribuenti e rendere più moderno ed equo il sistema. La riforma Vanoni introdusse l’obbligo generalizzato di dichiarazione annuale dei redditi per tutti i contribuenti – inclusi i lavoratori dipendenti, fin lì spesso esentati, e gli autonomi – salvo chi avesse redditi sotto i minimi imponibili. In precedenza, infatti, solo una minoranza presentava la denuncia dei redditi, il che lasciava ampie sacche di ricchezza non tassata. Vanoni inoltre ridusse le aliquote d’imposta e aumentò le franchigie (minimi esenti), in modo da incentivare l’adempimento spontaneo e rendere il prelievo più “sopportabile” e graduale. Fu anche introdotta una nuova imposta sulle società e obbligazioni (una tassazione specifica sui redditi da capitale societario), precorritrice dell’IRPEG. Gli effetti furono significativi: nel 1951 gli italiani compilarono quasi 4 milioni di dichiarazioni dei redditi, contro poche centinaia di migliaia degli anni precedenti, e il gettito delle imposte dirette più che raddoppiò. La riforma Vanoni, pur non rivoluzionando l’intero sistema, costituì un primo passo verso una fiscalità più estesa e progressiva, contribuendo a creare l’abitudine, fino ad allora scarsa, di dichiarare annualmente i propri redditi. Ciò aiutò anche a mitigare (parzialmente) l’evasione: far emergere milioni di contribuenti prima “invisibili” fu un colpo alla sotto‐dichiarazione cronica del reddito.
Gli anni ’50 furono caratterizzati da una forte crescita economica e dall’avvio della costruzione di uno Stato sociale (previdenza, assistenza) che richiedeva risorse finanziarie crescenti. Il sistema tributario, tuttavia, rimaneva imperfetto. Nel 1958 fu approvato un Testo Unico delle leggi sulle imposte dirette che razionalizzò la normativa, ma sostanzialmente mantenne l’impianto pre-esistente. Durante il boom economico (seconda metà degli anni ’50 e anni ’60) le entrate tributarie aumentarono in valore assoluto grazie all’espansione del PIL, ma la pressione fiscale complessiva rimase moderata rispetto ad oggi, anche perché l’Italia puntava su tasse basse per favorire l’industrializzazione. Le imposte indirette come i dazi doganali (prima della liberalizzazione CEE) e le accise (carburanti, energia, consumo di elettricità) fornirono gettito importante in questa fase di consumi di massa crescenti. Ad esempio, furono introdotte accise per far fronte a emergenze: nel 1963 dopo il disastro del Vajont fu messa un’accisa sui carburanti per finanziare la ricostruzione, e altre seguirono per l’alluvione di Firenze 1966, i terremoti del Belice 1968 e del Friuli 1976, ecc.. Molti di questi tributi occasionali divennero permanenti nel mucchio delle accise unificate. Sul fronte delle imposte dirette, gli anni ’60 videro tentativi di maggiore aderenza al principio di capacità contributiva: si introdusse ad esempio un’imposta sui trattamenti di fine rapporto (TFR) e si prepararono le basi (studi commissionati a esperti) per una riforma organica, riconoscendo che il sistema in vigore era antiquato, con troppe imposte e poca chiarezza.
Socialmente, il periodo del boom fu caratterizzato da una contraddizione: da un lato la popolazione beneficiò di un maggiore benessere con basse tasse sui redditi familiari, dall’altro lo Stato faticava a raccogliere entrate sufficienti a finanziare servizi pubblici adeguati. L’evasione fiscale rimaneva elevatissima, soprattutto tra lavoratori autonomi e piccole imprese: mancavano strumenti di controllo efficaci, e culturalmente l’infedeltà fiscale era tollerata. Ciò creava iniquità: i lavoratori dipendenti (le cui imposte erano trattenute alla fonte) erano tassati di fatto più pesantemente e inevitabilmente, mentre altri potevano sottrarsi in parte al prelievo. Questa situazione iniziò a essere percepita come insostenibile alla fine degli anni ’60, anche in un clima di rivendicazioni sociali: la richiesta di giustizia fiscale diventava pressante.
Le grandi riforme tributarie degli anni ’70
Gli anni Settanta segnano una svolta epocale per il fisco italiano. Si realizzò infatti la prima riforma tributaria organica della Repubblica, paragonabile per importanza solo a quella post-unitaria. Dopo studi e commissioni preparatorie (avviati già dalla fine dei ’60), il Parlamento approvò la legge delega 9 ottobre 1971 n.825 che tracciava i principi della riforma secondo i criteri costituzionali di capacità contributiva e progressività. Sulla base di quella delega, tra 1972 e 1973 il Governo emanò i decreti legislativi che ridisegnarono da zero il sistema fiscale italiano. Le principali novità (entrate in vigore dal 1973-74) furono:
- IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) – introdotta con DPR 597/1973 – che sostituì la vecchia imposta complementare e le imposte dirette “reali” sul reddito. L’IRPEF divenne l’imposta cardine: personale (sul reddito complessivo del contribuente) e fortemente progressiva per scaglioni. Al debutto aveva ben 32 aliquote crescenti, dal 10% fino al 72%, con 32 scaglioni di reddito (da poche migliaia fino a 500 milioni di lire) – una progressività spinta, poi ridotta negli anni successivi. L’IRPEF segnò il passaggio definitivo al principio “paghi in base a quanto guadagni”, divenendo nel tempo la principale imposta italiana per gettito e strumento di redistribuzione.
- IRPEG (Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche) – introdotta con DPR 598/1973 – tassa proporzionale sui redditi d’impresa e degli enti (società di capitali, enti commerciali), con aliquota unica 37%. Sostituì la precedente imposta sulle società; anch’essa era una novità rispetto al passato, prevedendo una tassazione separata per il reddito prodotto dalle persone giuridiche, distinta dall’IRPEF. L’IRPEG resterà in vigore fino al 2004 quando sarà sostituita dall’IRES (aliquota ridotta prima al 33% e poi al 24%).
- ILOR (Imposta Locale sui Redditi) – introdotta con DPR 599/1973 – un’imposta proporzionale (aliquota 16,2%) sui redditi fondiari, di capitale, d’impresa e diversi prodotti nel territorio. In teoria doveva finanziare gli enti locali, ma di fatto divenne un gettito per lo Stato. L’ILOR colpiva anche redditi non tassati da IRPEF (es. redditi agrari) e fu spesso criticata; verrà abolita nel 1998.
- IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) – introdotta con DPR 633/1972 – imposta sui consumi che sostituì l’IGE a partire dal 1° gennaio 1973. L’IVA, armonizzata alle direttive CEE, colpisce il valore aggiunto in ogni fase della produzione/commercializzazione, con meccanismo di detrazione e obbligo di fatturazione. Fu una piccola rivoluzione nel campo delle imposte indirette, modernizzando il prelievo sui consumi e allineando l’Italia agli standard europei.
- INVIM (Imposta sull’incremento di valore degli immobili) – introdotta con DPR 643/1972 – colpiva l’aumento di valore di terreni e fabbricati al momento del trasferimento (vendita, successione). Era un’imposta patrimoniale comunale sugli immobili, con scaglioni sul plusvalore, pensata per dare risorse ai Comuni (ma poi incamerata dallo Stato, come l’ILOR). Rimarrà in vigore fino al 2002, quando verrà soppressa.
Oltre a queste principali, la riforma del ’73 semplificò o modificò molte altre imposte: furono riviste le imposte di registro, bollo, successione, ipotecarie, introdotte nuove imposte di fabbricazione e sul consumo (ad esempio l’imposta sugli spettacoli) e riformato il contenzioso tributario. In pratica, il sistema tributario fu completamente ristrutturato: da un sistema misto e frammentario di epoca pre-bellica, si passò a un modello duale moderno, con un’imposta personale progressiva sui redditi (IRPEF), affiancata da imposte proporzionali su redditi societari (IRPEG) e locali (ILOR), e con imposte indirette armonizzate (IVA) e patrimoniali specifiche (INVIM, oltre a ICI sui fabbricati che arriverà negli anni ’90).
Le implicazioni economiche e sociali di questa riforma furono enormi. Da un punto di vista economico, il fisco divenne molto più efficiente nel prelievo: il gettito aumentò notevolmente a metà anni ’70, consentendo allo Stato di finanziare l’espansione del Welfare (si pensi all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, alle pensioni sociali, all’istruzione di massa, ecc.). Tuttavia, la forte progressività IRPEF (aliquote fino al 72%) e la crisi economica dei ’70 portarono anche effetti negativi: elevati aliquote marginali incentivarono nuove forme di evasione ed elusione, e si diffusero fenomeni come il lavoro sommerso. In quegli anni, l’alta inflazione combinata con aliquote progressive causò la cosiddetta “bracket creep” (la perdita di potere d’acquisto spingeva i redditi nominali in scaglioni più alti, aumentando il peso fiscale senza intervento legislativo), e ciò alimentò malcontento. Socialmente, la riforma mirava a maggiore equità e in parte la ottenne – facendo pagare di più ai redditi alti e alleggerendo i bassi – ma il contemporaneo aumento dell’evasione ne limitò l’effetto redistributivo. Gli autonomi e molti professionisti, ad esempio, dichiararono redditi relativamente modesti per sfuggire alle aliquote elevate, mentre i lavoratori dipendenti e pensionati subirono integralmente il prelievo alla fonte. Già nei primi anni ’80 solo una minoranza di contribuenti dichiarava redditi tali da essere tassati agli scaglioni superiori, mentre metà dei dichiaranti rientrava nel primo scaglione IRPEF. Questo divario rifletteva in parte la struttura socio-economica italiana, in parte le sacche di evasione. La reazione dello Stato fu duplice: da un lato, riduzione graduale delle aliquote IRPEF negli anni successivi; dall’altro, avvio di strumenti di controllo antievasione più incisivi.
Evoluzione dagli anni ’80 ai ’90: razionalizzazione, federalismo fiscale e Maastricht
Dopo la grande riforma, gli anni 1980 furono dedicati a “manutenzioni” del sistema tributario. Si intervenne per semplificare le aliquote IRPEF: il numero di scaglioni fu ridotto più volte (passando da 32 a 9 nel 1983, poi a 7 e infine a 5 aliquote alla fine degli anni ’80). Il tetto massimo dell’aliquota IRPEF scese progressivamente dal 72% al 50% circa. Queste riforme miravano a contenere gli effetti distorsivi sul comportamento dei contribuenti e a stimolare la produzione riducendo l’eccesso di progressività. Nel 1984 fu introdotto il conto fiscale e altri meccanismi per semplificare i pagamenti tributari da parte delle imprese. Si diffuse inoltre l’uso del codice fiscale (introdotto formalmente nel 1973) per tracciare tutte le posizioni contributive dei cittadini. A livello di imposte indirette, gli anni ’80 videro l’armonizzazione delle aliquote IVA alle direttive europee e l’introduzione di nuove accise in occasione di crisi energetiche (ad esempio l’aumento delle accise carburanti durante lo shock petrolifero del 1979 e la crisi del Golfo 1990-91).
Un cambiamento di rilievo fu l’introduzione dell’ICIAP (Imposta Comunale sull’esercizio di Imprese, Arti e Professioni) nel 1989, pensata per assegnare risorse fiscali proprie agli enti locali. L’ICIAP colpiva il valore aggiunto generato dalle attività produttive a livello comunale, ma ebbe vita breve e gettito modesto: sarà abolita alla fine del 1997 in favore di un tributo regionale più organico (l’IRAP). Sul versante delle imposte patrimoniali, da segnalare la soppressione nel 1992 dell’INVIM sulle plusvalenze immobiliari (che poi verrà reintrodotta temporaneamente nel 1993 come imposta straordinaria e infine eliminata definitivamente nel 2002).
Gli anni 1990 furono anni di profonde trasformazioni, dettate anche da vincoli internazionali. L’Italia dovette far fronte a una grave crisi di finanza pubblica nei primi ’90 e prepararsi all’ingresso nell’euro (parametri di Maastricht). Nel 1992 la pressione fiscale subì un forte incremento a seguito della manovra del governo Amato per salvare la lira e i conti pubblici: fu introdotta un’imposta straordinaria sui patrimoni finanziari (il prelievo forzoso del 6‰ sui conti correnti bancari nella notte del 9 luglio 1992) e nacque l’ICI (Imposta Comunale sugli Immobili). L’ICI, istituita con D.lgs. 504/1992, fu la prima imposta moderna sulla proprietà immobiliare: applicata sul valore catastale di fabbricati e terreni, con aliquota decisa dai Comuni, divenne un importante pilastro del federalismo fiscale nascente. Inizialmente l’ICI gravava su tutti gli immobili, prima casa compresa, ma col tempo subirà varie esenzioni e modifiche (fino a diventare IMU). Sempre nel 1992 furono anche aumentate le aliquote IVA (l’aliquota ordinaria passò dal 19% al 20%) e si intervenne su altre imposte indirette per far cassa.
Un’altra svolta cruciale fu la riforma Visco del 1997-1998 (Governo Prodi). Con D.lgs. 446/1997 venne introdotta l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) in vigore dal 1998, che rimpiazzò sia l’ILOR che l’ICIAP e perfino il contributo sanitario nazionale. L’IRAP è un’imposta regionale sul valore della produzione netta delle imprese (in pratica sul valore aggiunto delle aziende, con aliquota base 4-5%). La sua introduzione perseguiva due obiettivi: fornire alle Regioni un tributo proprio per finanziare la sanità (in ottica di decentralizzazione fiscale) e semplificare il panorama eliminando varie vecchie imposte sovrapposte. Contestualmente, nel 1998 fu abolita l’ILOR su imprese e capitali e soppresso il contributo locale sui salari destinato alla sanità. Queste misure segnarono il passaggio verso un fisco più decentrato e attento al finanziamento dei servizi locali. Sempre sul finire dei ’90, Vincenzo Visco (viceministro delle Finanze) introdusse i “studi di settore” come strumento di accertamento: ogni attività economica aveva un profilo di ricavi/compensi standard in base a parametri, e se un contribuente dichiarava molto meno poteva essere oggetto di verifica. Gli studi di settore, lanciati a metà anni ’90, furono un’importante innovazione nella lotta all’evasione per autonomi e imprese (rimarranno in uso fino al 2019, poi sostituiti dagli ISA).
Nel 1998 venne anche attuata una semplificazione dell’IRPEF con l’introduzione di nuove detrazioni per tipologia di reddito (l’idea della “no tax area” per redditi bassi) e si posero le basi per la riforma del 2003-2005. Infine, un evento epocale di fine anni ’90 fu l’entrata dell’Italia nell’euro: per rispettare i parametri, nel 1997 fu applicata la cosiddetta “Eurotassa” (tecnicamente un aumento temporaneo dell’IRPEF per i redditi medio-alti) destinata a ridurre il deficit. Nonostante fosse un prelievo straordinario e mirato, la Eurotassa fu poi rimborsata parzialmente ai contribuenti nel 1999, ma rappresentò il clima di sacrifici fiscali dell’epoca.
In termini di implicazioni sociali, gli anni ’80-’90 videro crescere la consapevolezza del peso del fisco: la pressione fiscale complessiva salì attorno al 40% del PIL nei ’90 (era circa 25% nei ’60), sintomo di uno Stato più esigente ma anche di maggiore evasione che costringeva ad aliquote più alte. Le riforme dei ’90 cercarono di redistribuire il carico: ad esempio, l’ICI colpiva i patrimoni immobiliari (facendo partecipare la ricchezza accumulata alle spese pubbliche), l’IRAP spostava parte del gettito su imprese e professionisti e finanziava la spesa sanitaria in modo più stabile. Tuttavia, l’evasione rimase alta: a metà anni ’90, era ancora frequente che milioni di italiani dichiarassero redditi irrisori. Proprio in quel periodo, grazie all’anagrafe tributaria informatizzata, emersero dati sconcertanti: milioni di contribuenti sotto la soglia di povertà reddituale “ufficiale” e pochissimi ricchi dichiarati. Questo alimentò politiche di contrasto più aggressive (studi di settore, redditometro, controlli incrociati) e un dibattito acceso sull’equità. Socialmente, l’Italia entrava nel nuovo millennio con un sistema fiscale complesso, in parte modernizzato e integrato in Europa, ma con il malcostume dell’evasione fiscale ancora radicato e un rapporto conflittuale tra fisco e cittadini.

Il sistema tributario nell’Italia post-2000: tra tagli di tasse, crisi e digitalizzazione
All’alba degli anni 2000, il fisco italiano fu interessato da diverse ondate di riforme promesse dai governi di turno, spesso con l’obiettivo di ridurre le tasse e stimolare la crescita, ma anche di far fronte a improvvise crisi finanziarie.
Riforme Tremonti e Berlusconi (2001-2006)
Con il governo di centro-destra guidato da Silvio Berlusconi (2001-2006, ministro dell’Economia Giulio Tremonti), furono messi in cantiere significativi cambiamenti fiscali. Tremonti presentò un “Libro Bianco” sul sistema tributario nel 2003, ispirato a principi di semplificazione e riduzione del carico fiscale. Ne seguì una riforma IRPEF in due fasi: dal 2005 le aliquote IRPEF furono ridotte a tre scaglioni principali (23%, 33% e 39%) più un contributo di solidarietà del 4% per i redditi molto alti. Questo rimpiazzò il precedente schema a 5 aliquote, nell’intento di avvicinarsi a un modello “flat tax” modesto. Ad esempio, per i redditi medi fu abolita l’aliquota del 45% e introdotto un tetto del 39% oltre 100.000 euro (43% considerando il contributo aggiuntivo). La riforma favorì soprattutto i contribuenti a reddito medio-alto, suscitando critiche per il minor effetto redistributivo. Infatti, già prima metà dei contribuenti si fermava al primo scaglione minimo, per cui ridurre gli scaglioni beneficiava proporzionalmente di più chi dichiarava redditi elevati. Nonostante l’ambizione originaria di Tremonti di passare addirittura a due aliquote (23% e 33%), vincoli di bilancio impedirono di spingersi oltre. La riforma IRPEF fu comunque parzialmente smontata dal successivo governo Prodi (2006-2008), che riportò a 5 aliquote per ragioni di equità e finanza.
Durante i governi Berlusconi si intervenne anche sulle imposte societarie: nel 2004 l’IRPEG fu sostituita dall’IRES (Imposta sul Reddito delle Società) con aliquota proporzionale del 33%, poi abbassata al 27,5%. L’IRES semplificò alcune regole di calcolo e allineò l’Italia alla terminologia fiscale internazionale. Fu inoltre introdotta (sperimentale) la cosiddetta “Dual income tax”, un meccanismo che tassava a aliquota ridotta la parte di utili reinvestiti in azienda, per favorire la capitalizzazione delle imprese – misura poi eliminata. Sul fronte delle imposte patrimoniali immobiliari, un provvedimento bandiera del 2008 fu l’abolizione dell’ICI sulla prima casa. Berlusconi già nel 2006 l’aveva promessa e, tornato al governo, con il D.L. 93/2008 escluse l’abitazione principale dal pagamento dell’ICI. Questa scelta popolare fra gli elettori comportò però un minore gettito per i Comuni (circa 3 miliardi annui), poi compensato solo in parte dallo Stato. L’abolizione dell’ICI prima casa fu criticata da alcuni come un’“anomalia” italiana (in tutti i paesi esistono property tax sulle abitazioni), e infatti sarà rivista negli anni successivi.
Gli anni 2001-2006 videro anche diversi condoni fiscali (sanatorie) promossi da Tremonti per far emergere base imponibile ed incassare subito: condono tombale sui redditi non dichiarati, condono edilizio, “scudo fiscale” 2003 per il rimpatrio di capitali esteri. Queste misure straordinarie portarono entrate nell’immediato ma furono accusate di minare la compliance fiscale nel lungo termine, lanciando il messaggio che evadere poteva convenire aspettando un condono.
In termini di lotta all’evasione, proprio nel 2001 Tremonti abolì temporaneamente il redditometro introdotto negli anni ’90, preferendo un approccio di fiducia verso i contribuenti (linea politica “meno controlli, meno oppressione fiscale”). Tuttavia, i risultati modesti in termini di recupero dell’evasione portarono poi ad un cambio di rotta negli anni seguenti. Nel 2005 furono istituiti gli “spesometri” settoriali (elenchi clienti-fornitori) per tracciare acquisti e vendite sopra una certa soglia, preludio del futuro spesometro generalizzato.
La crisi del 2011-2012 e la “cura Monti”
La fine degli anni 2000 fu scossa dalla crisi finanziaria globale e dalla crisi del debito sovrano in Europa. In Italia, dopo un triennio 2008-2010 di stagnazione, nel 2011 esplose la crisi dello spread: il governo Berlusconi IV cadde e subentrò un esecutivo tecnico guidato da Mario Monti con un drastico programma di risanamento. Il Decreto “Salva Italia” (D.L. 201/2011) varato da Monti a dicembre 2011 introdusse una pesante manovra fiscale correttiva da 30 miliardi, invertendo molte politiche precedenti. In particolare, Monti reintrodusse la tassazione sulla prima casa sotto forma di IMU (Imposta Municipale Propria) dal 2012. L’IMU era stata pensata nel 2009 come pilastro del federalismo fiscale per sostituire l’ICI dal 2014, ma Monti ne anticipò l’applicazione immediata per far cassa. Dal 2012 quindi tutte le abitazioni (incluse le prime case) tornarono a pagare un’imposta patrimoniale comunale, con aliquota base 0,4% per l’abitazione principale e 0,76% per le altre. Per le prime case l’IMU prevedeva alcune detrazioni (200 € base + 50 € per figlio convivente) per attenuare l’impatto. Monti stesso definì “un’anomalia tutta italiana” l’assenza di tassazione sulla prima casa decisa nel 2008, sottolineando che quei mancati miliardi furono pagati da lavoratori e imprese con altre imposte. La reintroduzione dell’IMU mirava infatti a riequilibrare il carico fiscale: tassare i patrimoni immobiliari (in gran parte detenuti dalle famiglie italiane) per evitare ulteriori aumenti di imposte su redditi e attività produttive. Parallelamente, Monti aumentò l’IVA: l’aliquota ordinaria salì dal 21% al 22% (l’incremento scattò nel 2013) e quella ridotta dal 10% all’11%. Venne inoltre introdotta un’addizionale regionale sull’IRPEF e un contributo di solidarietà sui redditi pensionistici elevati. Un’altra misura fu l’imposta straordinaria dell’1,5% sui capitali “scudati” (rientrati con i condoni precedenti). Monti perseguì anche una forte azione anti-evasione: abbassò drasticamente la soglia per l’uso del contante (a 1.000 €) per incentivare i pagamenti tracciabili, rese operativo il nuovo redditometro 2012 (un aggiornamento dello strumento per stimare redditi in base alle spese, che però generò contenziosi e sarà poi di fatto accantonato) e potenziò il monitoraggio bancario (obbligo per gli intermediari finanziari di comunicare periodicamente all’Anagrafe tributaria i movimenti sui conti dei clienti). Furono anche attuate misure di compliance come la fatturazione elettronica obbligatoria verso la Pubblica Amministrazione (dal 2014) e controlli incrociati serrati.
Le politiche di Monti nel biennio 2012-13, sebbene efficaci nel migliorare i conti pubblici e ristabilire la fiducia dei mercati, ebbero un impatto recessivo sull’economia e furono socialmente dure. L’inasprimento fiscale contribuì alla caduta del PIL e all’aumento della pressione fiscale a livelli record (oltre 44% del PIL nel 2012). Il malcontento popolare verso l’IMU sulla prima casa e la percezione di un fisco sempre più esoso portarono a un rapido riassestamento politico.
Le riforme Renzi (2014-2016)
Nel 2014 divenne Premier Matteo Renzi, che lanciò lo slogan di alleggerire le tasse per rilanciare consumi e fiducia. Il governo Renzi introdusse alcune misure fiscali di segno opposto rispetto all’era Monti. La più celebre fu il “bonus 80 euro” (D.L. 66/2014) – un credito IRPEF di 80 € al mese in busta paga per i lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi (fino ~26.000 € annui). Nato come intervento temporaneo, fu poi reso stabile e ampliato (nel 2020 portato a 100 €). Questo bonus, pur essendo tecnicamente una spesa fiscale (riduzione d’imposta per certi contribuenti), fu comunicato come taglio del “cuneo fiscale” sul lavoro, per aumentare il reddito disponibile dei ceti medio-bassi e sostenere i consumi.
Un altro intervento di rilievo fu sulla tassazione immobiliare: nella Legge di Stabilità 2016, Renzi abolì definitivamente la TASI sulla prima casa, eliminando così qualsiasi imposta sull’abitazione principale non di lusso. Dal 2016 dunque i proprietari della casa in cui risiedono non pagarono né IMU né TASI (ad eccezione di ville e immobili di categoria A/1, A/8, A/9). Renzi rivendicò questa misura come la “fine delle tasse sulla prima casa” dopo un decennio di dibattiti, sostenendo che la casa di abitazione rappresenta per gli italiani “il frutto di sacrifici di una vita” e non andasse ulteriormente tassata. Ciò pose l’Italia di nuovo in controtendenza rispetto ad altri Paesi, ma fu accolto positivamente dall’opinione pubblica. Allo stesso tempo, per le imprese agricole furono eliminati l’IMU agricola e l’IRAP agricola.
Sul fronte imprese, con la Legge di Bilancio 2017 (governo Renzi-Gentiloni) l’aliquota IRES fu abbassata dal 27,5% al 24%, allineandosi alla media UE. Furono lanciate misure pro-investimenti come il “super ammortamento” al 140% per beni strumentali (2016) e “iper ammortamento” al 250% per beni digitali Industria 4.0 (2017). Inoltre, Renzi ha spesso ribadito la linea di “pagare meno, pagare tutti” nella lotta all’evasione. Il suo governo spinse sulla tecnologia e trasparenza: avvio della dichiarazione precompilata online (dal 2015 i cittadini possono scaricare il 730 precompilato), potenziamento della fatturazione elettronica (inizialmente su base volontaria tra privati). Vennero abolite alcune comunicazioni ridondanti e introdotto lo split payment IVA per gli enti pubblici (l’IVA sulle fatture a PA viene versata direttamente allo Stato, per evitare evasione). Nonostante ciò, il tasso di evasione rimase elevato in settori critici. Gli studi di settore continuarono a essere applicati e anzi raffinati (furono introdotti indici di coerenza e normalità economica), fino a essere sostituiti nel 2018 dagli Indici Sintetici di Affidabilità (ISA).
Verso la digitalizzazione fiscale: 2018-2022
Negli anni recenti, indipendentemente dai governi (che si sono succeduti frequenti), la direzione del sistema fiscale italiano è stata quella della digitalizzazione e di un contrasto più incisivo all’evasione tramite strumenti telematici. Un cambiamento epocale è stata l’obbligatorietà della fatturazione elettronica B2B e B2C dal 2019 per tutte le partite IVA (salvo esoneri temporanei per i minimi). L’Italia, prima in Europa, ha implementato un sistema in cui tutte le fatture transitano per il Sistema di Interscambio dell’Agenzia delle Entrate, consentendo un controllo capillare sull’IVA dovuta. La fattura elettronica ha di fatto reso inutile lo spesometro, che infatti è stato abolito dal 2019 contestualmente. Inoltre, dal 2020 è obbligatorio lo scontrino elettronico (invio telematico dei corrispettivi giornalieri) per commercianti e artigiani, accompagnato dall’innovativa “lotteria degli scontrini” per incentivare i consumatori a richiedere lo scontrino (misura però rivelatasi poco efficace). Sempre nel 2019 è stato disattivato il redditometro (definitivamente abrogato dal governo Conte I), considerato troppo invasivo e inefficiente.
Il biennio 2020-2021 è stato segnato dalla pandemia Covid-19, durante la quale il fisco ha svolto un ruolo anche di sostegno: rinvii di scadenze, contributi a fondo perduto al posto di tasse, e il cashback di Stato (nel 2021 il governo Conte II ha rimborsato il 10% degli acquisti elettronici fino a 150€ semestre, per disincentivare l’uso del contante). Quest’ultimo, insieme alla lotteria scontrini, non ha dato i frutti sperati ed è stato cancellato prematuramente dal governo Draghi nel 2021, poiché costoso (circa 1,5 miliardi erogati) e con effetti marginali sul gettito.
Il governo Draghi (2021-2022), sostenuto da un’ampia coalizione, ha varato una riforma dell’IRPEF efficace dal 2022, riducendo gli scaglioni da 5 a 4 aliquote. La nuova struttura prevede: 23% fino a 15.000€, 25% da 15.001 a 28.000€ (invece di 27%), 35% da 28.001 a 50.000€ (invece di 38%) e 43% oltre 50.000€ (eliminando il precedente scaglione 41% tra 55k e 75k). Contestualmente sono state riviste le detrazioni per lavoro e pensioni per evitare aumenti d’imposta ai redditi medio-bassi. Questa rimodulazione ha alleggerito in particolare il ceto medio e uniformato il prelievo sui redditi alti (prima c’era un salto al 43% dopo 75k). Draghi inoltre, con la Legge di Bilancio 2022, ha abolito l’IRAP per circa un milione di piccoli imprenditori e professionisti (persone fisiche) a partire dal 2022. Ciò significa che le ditte individuali e i lavoratori autonomi non devono più pagare l’IRAP, che resta invece in vigore per società e studi associati. L’abolizione parziale dell’IRAP è un primo passo verso il suo graduale superamento (esplicitamente previsto nella legge delega fiscale approvata nel 2022). Sempre con Draghi sono stati potenziati gli incentivi agli investimenti e prorogati i crediti d’imposta Transizione 4.0.
In tema di evasione fiscale, l’Agenzia delle Entrate sotto la direzione di Ruffini (dal 2020) ha ulteriormente sviluppato strumenti di analisi dei dati (il cosiddetto “evasometro” o super-anagrafe finanziaria, che incrocia movimenti bancari e redditi dichiarati). Il governo ha anche previsto dal 2022 l’obbligo di fatturazione elettronica esteso ai contribuenti forfettari (minimi) con ricavi sopra 25k, e in generale ha puntato sul compliance friendly (favorire l’adempimento spontaneo) più che su misure punitive a tappeto. Non sono mancate comunque sanatorie mirate (ad esempio il condono delle cartelle esattoriali fino a 5.000€ varato nel 2021).
Le implicazioni sociali nel periodo post-2000 sono state contrastanti: da un lato, frequenti annunci di “taglio delle tasse” e qualche beneficio concreto (ad esempio il bonus 80€, l’abolizione dell’IMU/TASI sulla prima casa, il calo IRES) hanno cercato di alleviare la percezione di oppressione fiscale; dall’altro, l’Italia ha mantenuto una pressione fiscale elevata, con problemi di equità orizzontale e verticale ancora evidenti. La disuguaglianza economica è mitigata in parte dal sistema progressivo e dal welfare che le tasse finanziano, ma l’evasione e l’elusione erodono la base imponibile, costringendo a mantenere aliquote nominali alte. Questo alimenta un circolo vizioso di sfiducia: molti contribuenti onesti percepiscono ingiustizia nel dover pagare anche per chi non lo fa, mentre gli evasori giustificano la loro condotta con l’eccesso di tasse e la scarsa qualità dei servizi. I governi recenti hanno cercato di spezzare questo circolo con la digitalizzazione (che rende più difficile evadere) e campagne come la “cashless society”. I risultati iniziano a vedersi: nel 2021-2022 il gettito IVA è cresciuto ben oltre il PIL grazie a fattura elettronica e scontrini telematici, segno di un recupero di base imponibile. La strada per un rapporto sereno tra italiani e fisco è però ancora lunga e oggetto di dibattito politico costante (si pensi alle proposte di flat tax, ai condoni discussi, alla pressione di categorie economiche per alleggerimenti mirati).
Lotta all’evasione fiscale: dall’accertamento al digitale
L’evasione fiscale in Italia ha radici storiche profonde e ha sempre accompagnato l’evoluzione del sistema tributario come un’ombra. Di pari passo, sono evolute anche le misure per contrastarla, diventando via via più sofisticate.
Già negli anni ’50 Vanoni, nel proporre la sua riforma, denunciava come l’eccesso di imposte indirette spingesse i contribuenti a evadere. Egli puntava sulla dichiarazione annuale obbligatoria per stanare i redditi occultati e su aliquote ragionevoli per favorire la compliance. Negli anni ’60 e ’70, con l’avvento dell’IRPEF, l’evasione di massa divenne ancora più evidente: improvvisamente artigiani, commercianti e professionisti risultarono “poverissimi” su carta. Nel 1973 fu concepito il primo redditometro: un rudimentale strumento che incrociava il tenore di vita (auto di lusso, ville, barche possedute) con il reddito dichiarato, segnalando incongruenze. Tuttavia all’epoca mancavano banche dati e informatizzazione per applicarlo sistematicamente, dunque rimase lettera morta.
Una svolta fu la creazione dell’Anagrafe Tributaria (a fine anni ’60) e l’assegnazione del codice fiscale a tutti i cittadini: ciò permise, dagli anni ’80 in poi, di accumulare dati centralizzati. Visentini, ministro delle Finanze nei primi ’80, effettuò blitz clamorosi (famoso il “blitz di San Valentino” 1982 della Guardia di Finanza nei locali alla moda) e introdusse lo scontrino fiscale obbligatorio per commercianti e ricevute per professionisti, con relative sanzioni, nel tentativo di inculcare la cultura della ricevuta. A metà anni ’90, come detto, si implementarono gli studi di settore, che di fatto presumevano un certo reddito minimo in base alle caratteristiche dell’attività: se dichiaravi meno, scattava l’accertamento. Questo approccio per lungo tempo ha fatto “paura” alle partite IVA, inducendole ad adeguare i ricavi dichiarati alle medie di settore. Parallelamente riprese vita il redditometro: un Decreto Ministeriale del 1992 fissò coefficienti per stimare il reddito di una famiglia in base ai beni posseduti (auto, proprietà, spese scolastiche, ecc.). Il redditometro subì varie revisioni: nel 2010 Visco (tornato al governo nei 2000) lo potenziò inserendo più voci di spesa; Monti nel 2012 emanò un redditometro ancora più dettagliato che considerava oltre 100 voci di consumo. Tuttavia, quest’ultimo fu molto contestato (anche legalmente, per privacy) e di fatto non fu utilizzato dopo il 2015. Anzi, nel 2018 il governo “giallo-verde” sospese definitivamente gli accertamenti da redditometro in corso e abrogò lo strumento, salvo un tentativo recente di reintrodurne una versione “light”.
Il spesometro è stato un altro cardine anti-evasione. Introdotto nel 2010 (DL 78/2010) e attuato dal 2011, obbligava commercianti, professionisti e operatori finanziari a comunicare all’Agenzia delle Entrate tutte le operazioni IVA rilevanti sopra una certa soglia. In pratica il Fisco poteva conoscere l’elenco dei clienti/fornitori e le transazioni principali di ogni partita IVA. Lo spesometro ha prodotto enormi database, ma è stato criticato per il peso burocratico su PMI e per risultati non brillanti. Con l’avvento della fattura elettronica nel 2019, è stato soppresso (sostituito dalla comunicazione telematica obbligatoria in tempo reale).
Misure innovative degli ultimi anni includono la già citata fatturazione elettronica e lo scontrino telematico, che riducono alla fonte la possibilità di evadere l’IVA e non dichiarare ricavi, poiché le transazioni vengono tracciate digitalmente. Inoltre, l’Agenzia delle Entrate ha sviluppato algoritmi di risk analysis (il cosiddetto “evasometro” o superanagrafe): incrociando i flussi finanziari (banche comunicano saldi e movimenti) con redditi e altri dati, genera liste selettive di contribuenti a rischio evasione da controllare. Si tratta di un approccio più mirato e meno “a pioggia” rispetto al passato.
Sul fronte dei pagamenti, sono state varate misure di contrasto all’uso del contante: dal limite cash a 1.000€ di Monti, poi risalito e ridisceso (attualmente 5.000€ dal 2023), fino ad arrivare al cashback e incentivi a carte di credito sotto il governo Conte II. Il cashback di Stato (2021) rimborsava il 10% delle spese elettroniche, per un totale di 1,75 miliardi erogati, ma è stato giudicato poco efficiente nel ridurre l’evasione e quindi cancellato. Similmente, la lotteria degli scontrini (partita nel 2021) non ha riscosso molto successo: dopo un iniziale interesse, la partecipazione dei consumatori è crollata, segno che non è un deterrente sufficiente.
Una misura di compliance preventiva in sperimentazione è il “tutor fiscale” – concetto evocato dagli esperti: monitorare annualmente la variazione di patrimonio di ciascun contribuente (grazie ai dati finanziari disponibili) per verificarne la coerenza col reddito dichiarato. Sarebbe una sorta di redditometro patrimoniale automatico, ma finora è solo un’idea in sviluppo, data la delicatezza in termini di privacy.
Non vanno dimenticate le implicazioni sociali della lotta all’evasione: per anni si è dibattuto tra approccio punitivo (blitz, sanzioni esemplari, carcere per grandi evasori – misure irrogate soprattutto dal 2020 con l’inasprimento penale) e approccio collaborativo (compliance, pre-adempimento, istituti come il ravvedimento operoso, cooperative compliance per grandi aziende). L’Italia ha alternato periodi di condoni (che minano la credibilità della deterrenza) a periodi di rigore. Negli ultimi tempi la tendenza UE e PNRR spinge verso digitalizzazione e prevenzione, più che condoni. L’Agenzia delle Entrate pubblica annualmente la stima del tax gap (divario fra imposte dovute e versate): i dati mostrano un miglioramento dal 2015 in poi, specialmente sul gap IVA sceso grazie alle fatture elettroniche. Ciò è cruciale perché recuperare evasione permette di abbassare le aliquote per tutti. Come affermato dallo stesso Renzi nel 2015: “lotta dura all’evasione: pagare meno, ma pagare tutti”. Resta da vedere se questa aspirazione diventerà realtà stabile: il sistema fiscale italiano è in continua evoluzione, con una delega fiscale approvata nel 2023 che preannuncia ulteriori cambiamenti (riduzione aliquote IRPEF, revisione IVA, abolizione definitiva IRAP, semplificazione adempimenti) nei prossimi anni. L’auspicio è che la storia del fisco italiano prosegua verso un equilibrio migliore tra equità, efficienza e sviluppo economico, imparando dalle lezioni dei secoli passati.
Tabella cronologica delle principali riforme fiscali e imposte in Italia
Anno | Evento/Riforma fiscale | Descrizione e imposte introdotte/modificate |
---|---|---|
1864 | Imposta di Ricchezza Mobile (legge n.1830) | Prima imposta sui redditi unificata a livello nazionale nel Regno d’Italia. Aliquota proporzionale 8% sui redditi non agrari; introdotta l’autodichiarazione dei redditi dei contribuenti. Segna l’estensione del sistema piemontese al nuovo Stato unitario. |
1868 | Tassa sul macinato | Imposta indiretta sulla macinazione dei cereali introdotta dalla Destra storica per risanare il bilancio. Molto impopolare, colpisce i consumi di base; sarà abolita nel 1880 dalla Sinistra storica. |
1923 | Riforma De Stefani | Il ministro fascista De Stefani attua una riforma generale: istituita l’Imposta complementare progressiva sul reddito (prima imposta personale progressiva in Italia); introdotta una tassa sugli scambi (imposta indiretta sulle transazioni). Aumentate varie imposte indirette; inizio di maggior pressione fiscale sui redditi. |
1927 | “Tassa sul celibato” | Imposta speciale voluta dal regime fascista: colpisce gli uomini non sposati (25-65 anni) per incentivarli al matrimonio e favorire le nascite. Esempio di uso del fisco con finalità sociali/demografiche. |
1940 | Introduzione di IGE e patrimoniale | Viene introdotta l’Imposta Generale sulle Entrate (IGE), imposta sui consumi che sostituisce la vecchia tassa di bollo sugli scambi, estesa anche ai servizi. Nello stesso anno istituita un’Imposta straordinaria sul patrimonio (colpisce i patrimoni privati) per esigenze belliche. |
1951 | Riforma Vanoni (L. 25/1951) | Prima riforma tributaria repubblicana. Obbligo generalizzato di dichiarazione annuale dei redditi per tutti i contribuenti; riduzione delle aliquote e aumento esenzioni per stimolare la compliance. Introdotta una nuova imposta sulle società (precursore IRPEG). Risultato: emersione di milioni di nuovi dichiaranti e gettito imposte dirette più che raddoppiato. |
1973-74 | Grande Riforma Tributaria | Riforma organica attuata con vari DPR: introdotte IRPEF (imposta personale e progressiva fino a 32 aliquote), IRPEG (imposta sui redditi societari, proporzionale 37%), ILOR (imposta locale sui redditi, 16,2% proporzionale), IVA (imposta sul valore aggiunto, sostituisce IGE), INVIM (imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili). Riformate registro, successioni, bollo, ecc. Si passa a un sistema fiscale moderno, conforme ai principi costituzionali di progressività. |
1989 | Introduzione ICIAP | Istituita l’Imposta Comunale sull’esercizio di Imprese, Arti e Professioni, per dare un tributo proprio ai Comuni sulle attività produttive. Aliquota locale su valore aggiunto; sarà abolita nel 1998 sostituita da IRAP. |
1992 | Manovra Amato – nascita ICI | Manovra d’emergenza: prelievo forzoso del 6‰ sui conti correnti (patrimoniale una tantum). Istituzione dell’ICI (Imposta Comunale sugli Immobili) su tutti i fabbricati e terreni, con aliquote decise dai comuni (base 4-7‰). Aumento aliquote IVA (dal 19% al 20%). Misure volte a risanare il deficit per Maastricht. |
1997-98 | Riforma Visco – Introduzione IRAP | Con D.lgs. 446/1997 entra in vigore dal 1998 l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) che sostituisce l’ILOR e l’ICIAP e finanzia le Regioni. Base imponibile: valore aggiunto delle imprese; aliquota intorno al 4%. Abolita l’ILOR dal 1998. Riforma dell’IRPEF: riduzione a 5 aliquote, nuove detrazioni per redditi da lavoro e famiglia. |
2004 | Nasce l’IRES | Sostituzione dell’IRPEG con l’IRES (Imposta sul Reddito delle Società). Aliquota proporzionale fissata al 33% (poi 27,5%); base imponibile societaria armonizzata agli standard europei. |
2005 | Riforma IRPEF Tremonti | Riduzione degli scaglioni IRPEF da 5 a 3 aliquote: 23%, 33%, 39% (più contributo 4% oltre 100 mila €). Ampiezza maggiore del primo scaglione (fino ~26.000€) e soppressione aliquote 45% e 41%. Obiettivo: semplificazione e incentivo all’offerta di lavoro, ma favorisce soprattutto i redditi medio-alti. |
2008 | Abolizione ICI prima casa | Governo Berlusconi abolisce l’ICI sull’abitazione principale (esenti tutte le prime case non di lusso). Mossa popolare che però sottrae ~3 mld annui ai Comuni (rimborsati dallo Stato solo in parte). |
2011-12 | Manovra Monti – Salva Italia | Reintrodotta l’imposta sulla prima casa tramite IMU su tutti gli immobili dal 2012 (aliquota base 0,4% prima casa, 0,76% altri immobili). Aumento IVA ordinaria al 22%. Limite uso contante ridotto a 1.000€. Contributo di solidarietà su pensioni d’oro. Rafforzato redditometro e controlli bancari. Misure drastiche per affrontare la crisi del debito. |
2014 | Bonus 80 euro | Governo Renzi introduce un credito IRPEF di 80€ al mese per i lavoratori dipendenti con reddito fino ~26.000€. Misura per ridurre il cuneo fiscale sui redditi bassi e stimolare i consumi, resa strutturale e ampliata successivamente. |
2016 | Abolizione TASI prima casa | Dal 2016 eliminata la TASI (tassa sui servizi indivisibili comunali) sull’abitazione principale. Le prime case tornano totalmente esenti da tasse locali (eccetto immobili di lusso). Contestualmente abolite IMU e IRAP agricole. |
2017 | Riduzione aliquota IRES | Aliquota IRES ridotta dal 27,5% al 24%, per rendere più competitive le imprese italiane e attrarre investimenti. |
2019 | Fatturazione elettronica B2B/B2C obbligatoria | L’Italia adotta la fattura elettronica obbligatoria tra privati (già obbligatoria verso PA dal 2015). Tutte le partite IVA emettono solo fatture digitali tramite il Sistema di Interscambio. Contestualmente abolito lo spesometro. Obiettivo: contrasto all’evasione IVA e modernizzazione dei processi contabili. |
2020 | Scontrino elettronico e lotteria | Obbligo di corrispettivi telematici: i registratori di cassa inviano online i dati degli scontrini all’Agenzia delle Entrate in tempo reale. Avvio della Lotteria degli scontrini per chi paga elettronicamente, come incentivo anti-evasione (iniziativa poi poco partecipata). |
2022 | Riforma Draghi – IRPEF e IRAP | In vigore la nuova IRPEF a 4 aliquote: 23%, 25%, 35%, 43%. Alleggerimento per redditi medi, eliminazione aliquota 41%. Abolizione dell’IRAP per imprenditori individuali e professionisti (persone fisiche) dal periodo d’imposta 2022. Estensione fatturazione elettronica ai contribuenti forfettari (ricavi > 25k) da luglio 2022. |
Fonti: Agenzia delle Entrate – FiscoOggi; Ministero Economia e Finanze; Archivio Senato; quotidiani economici e documenti ufficiali (leggi di bilancio, decreti legge).
Dal 1961 ad oggi, riepilogo dell’età moderna
All’inizio degli anni ’60, l’Italia si trovava al culmine del suo “miracolo economico”, un periodo di crescita senza precedenti che stava trasformando la nazione da una società prevalentemente agricola a una potenza industriale. Tuttavia, il sistema fiscale del Paese era un retaggio del passato, un mosaico complesso e anacronistico basato in gran parte sulla “Riforma Vanoni” del 1951.1 Questa struttura si dimostrava sempre più inadeguata a gestire la crescente complessità dell’economia e a soddisfare il mandato della Costituzione repubblicana, che esigeva un sistema tributario informato a criteri di equità e progressività.1
Questo articolo si propone di tracciare un percorso cronologico attraverso oltre sessant’anni di evoluzione fiscale in Italia, dal 1961 ai giorni nostri. È un viaggio che rivela come la politica fiscale italiana sia stata il risultato di una continua negoziazione tra esigenze contrapposte: il bisogno di entrate dello Stato per finanziare un welfare state in espansione, i principi di solidarietà e giustizia sociale, la spinta verso la semplificazione amministrativa e l’influenza determinante di forze esterne, come l’integrazione europea e le crisi economiche globali.
Al centro di questa lunga storia si colloca un evento di portata epocale: la “Grande Riforma Tributaria” del 1971-1974.1 Non si trattò di un semplice aggiornamento, ma di una demolizione quasi totale della vecchia architettura fiscale e della costruzione delle fondamenta del sistema moderno. Con essa nacquero i pilastri che ancora oggi sostengono l’imposizione in Italia, come l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche (IRPEF) e l’Imposta sul Valore Aggiunto (IVA), segnando un punto di non ritorno nella storia del fisco italiano.
1. Il Sistema Fiscale Pre-Riforma: L’Italia degli Anni ’60
Un Sistema Frammentato e Iniquo
Prima della grande riforma, il sistema tributario italiano era caratterizzato da una pluralità di imposte separate, definite “reali”, che colpivano le singole fonti di reddito o di ricchezza piuttosto che la capacità contributiva complessiva del contribuente. Questa struttura era intrinsecamente complessa e, soprattutto, iniqua.5 Il sistema si basava su quattro principali imposte dirette: una sulla terra, una sui fabbricati, una sui redditi agrari e un’imposta residuale che copriva tutti gli altri redditi, da quelli di lavoro a quelli di impresa e di capitale.5
Questa frammentazione generava una violazione strutturale del principio di equità orizzontale: due contribuenti con lo stesso reddito totale venivano tassati in modo diverso a seconda della provenienza delle loro entrate.5 Inoltre, l’assenza di un concetto di reddito globale rendeva difficile attuare in modo coerente l’esenzione di un “minimo vitale”, poiché il sistema non era in grado di valutare la situazione economica complessiva della persona.5 Il fulcro di questa debolezza concettuale risiedeva nella sua impostazione filosofica: era un sistema basato sulla “tassazione delle cose” (imposte reali) anziché sulla “tassazione delle persone” (imposta personale). Il sistema vedeva il contribuente non come un’entità unica, ma come un insieme di soggetti fiscali distinti: un proprietario terriero, un imprenditore, un lavoratore dipendente, anche se si trattava della stessa persona. La riforma del 1971-1974 rappresentò un cambio di paradigma fondamentale, spostando il focus da
cosa produce reddito a chi lo riceve, in linea con il principio costituzionale della “capacità contributiva”.1
I Pilastri della Tassazione Diretta
I principali tributi diretti dell’epoca erano:
- Imposta di Ricchezza Mobile: Istituita nel 1864, era l’imposta principale sui redditi non derivanti da immobili. Comprendeva profitti d’impresa, redditi da lavoro, interessi e altri proventi da capitale. Era un’imposta proporzionale, non progressiva, con aliquote diverse a seconda della categoria di reddito, e rimase in vigore fino alla sua abolizione nel 1973.5
- Imposta Complementare Progressiva sul Reddito: Introdotta nel 1923, era concepita come una sovraimposta applicata al reddito complessivo delle persone fisiche, con l’intento di aggiungere un elemento di progressività al sistema.1 Tuttavia, la sua efficacia era fortemente limitata da soglie di esenzione molto elevate, che ne rendevano il gettito quasi trascurabile.5 Fu abolita con la riforma del 1973.9
- Imposte Reali su Terreni e Fabbricati: Erano tributi distinti che colpivano i redditi (reali o presunti) derivanti dal possesso di terreni e fabbricati, un’eredità di un’economia ancora legata alla terra.5
La Tassazione Indiretta: L’Era dell’IGE
Sul fronte dell’imposizione indiretta, il tributo principale era l’Imposta Generale sull’Entrata (IGE), in vigore fino al 1972. Si trattava di un’imposta “a cascata” o plurifase, applicata su ogni passaggio della catena produttiva e distributiva.1 Questo meccanismo era il suo più grande difetto: la tassa veniva calcolata sul prezzo pieno ad ogni stadio, includendo anche l’imposta pagata negli stadi precedenti. Ciò generava una mancanza di trasparenza, distorceva le scelte produttive e, soprattutto, penalizzava le esportazioni italiane, poiché il carico fiscale accumulato non poteva essere scorporato. La necessità di sostituirla con un’imposta sul valore aggiunto, che stava diventando lo standard nella Comunità Economica Europea (CEE), fu una delle principali spinte verso la riforma.
La Necessità del Cambiamento
Alla fine degli anni ’60, era ormai evidente che questo sistema fosse insostenibile. Era complesso, inefficiente, iniquo e non più adeguato a un’economia industriale moderna e ai principi della CEE.4 La pressione per una revisione organica crebbe costantemente, culminando nei lavori della Commissione Cosciani, che fornì le basi intellettuali per la riforma che sarebbe seguita.5
2. La Svolta Epocale: La Grande Riforma Tributaria del 1971-1974
Il Disegno Legislativo: La Legge Delega n. 825/1971
Il punto di partenza della più grande trasformazione fiscale della storia repubblicana fu la Legge Delega 9 ottobre 1971, n. 825.11 Questo provvedimento non conteneva le norme specifiche, ma conferiva al Governo il potere di riscrivere l’intero ordinamento tributario attraverso l’emanazione di decreti delegati. La legge fissava i principi guida: semplificazione, razionalizzazione e, soprattutto, l’adeguamento ai principi costituzionali di capacità contributiva e progressività.12 Decretava l’abolizione di una lunga lista di vecchi tributi e la creazione di un’architettura fiscale completamente nuova.12
L’attuazione della riforma avvenne in due fasi principali:
- Prima Fase (1° gennaio 1973): Riguardò principalmente l’imposizione indiretta e immobiliare. Con una serie di diciannove decreti emanati il 26 ottobre 1972, vennero introdotte l’IVA e l’INVIM e furono riformate altre imposte come quelle di registro e di successione.3
- Seconda Fase (1° gennaio 1974): Si concentrò sull’imposizione diretta. Con i decreti del 29 settembre 1973, furono istituite l’IRPEF, l’IRPEG e l’ILOR, segnando la fine definitiva del sistema precedente.1
I Nuovi Pilastri del Sistema Fiscale Italiano
La riforma introdusse le imposte che, pur con innumerevoli modifiche, costituiscono ancora oggi l’ossatura del sistema fiscale italiano.
- IVA (Imposta sul Valore Aggiunto): Sostituì l’IGE a cascata, in adempimento delle direttive comunitarie.1 L’IVA è un’imposta generale sui consumi che, attraverso un meccanismo di detrazione, grava solo sul valore aggiunto in ogni fase del processo produttivo e distributivo, con l’onere finale che ricade interamente sul consumatore.14 Fu introdotta con un’aliquota ordinaria del 12% e una ridotta del 6%.15 La sua aliquota ordinaria ha subito un costante aumento nel corso dei decenni.
Data di Entrata in Vigore | Aliquota Ordinaria IVA | |
01/01/1973 | 12% | |
08/02/1977 | 14% | |
03/07/1980 | 15% | |
01/11/1980 | 14% | |
01/01/1981 | 15% | |
05/08/1982 | 18% | |
01/08/1988 | 19% | |
01/10/1997 | 20% | |
17/09/2011 | 21% | |
01/10/2013 | 22% | |
Fonte: Elaborazione su dati 67 |
- IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche): È il cuore della nuova imposizione diretta. Sostituì in un sol colpo l’Imposta di Ricchezza Mobile, l’Imposta Complementare e le vecchie imposte su terreni e fabbricati.8 Fu concepita come un’imposta unica, personale e fortemente progressiva, applicata al reddito complessivo delle persone fisiche.4 La sua struttura iniziale era estremamente ambiziosa e complessa, prevedendo ben 32 scaglioni di reddito, con aliquote che partivano dal 10% per arrivare a un’aliquota massima del 72%.17
- IRPEG (Imposta sul Reddito delle Persone Giuridiche): Questa nuova imposta sulle società sostituì la vecchia “imposta sulle società”. Era un tributo proporzionale applicato al reddito complessivo di società di capitali, enti commerciali e altri soggetti assimilati.1
- ILOR (Imposta Locale sui Redditi): Un’imposta locale che colpiva determinate categorie di reddito (fondiari, di capitale, d’impresa) prodotti nel territorio di un comune. Fu pensata per finanziare gli enti locali, ma si rivelò controversa e di difficile gestione, fino alla sua abolizione decenni dopo.1
- INVIM (Imposta Comunale sull’Incremento di Valore degli Immobili): Un’imposta locale che tassava l’aumento di valore degli immobili, sostituendo tributi simili preesistenti.1
Un elemento fondamentale, spesso trascurato, della riforma fu l’istituzione dell’Anagrafe Tributaria.3 Questo archivio centralizzato, che assegnava a ogni cittadino un codice fiscale, era la spina dorsale amministrativa indispensabile per gestire un sistema fiscale moderno e personale, consentendo controlli incrociati e ponendo le basi per un accertamento più efficace.
Sebbene la riforma mirasse alla semplificazione, essa nacque con contraddizioni intrinseche. L’IRPEF, con i suoi 32 scaglioni, era tutt’altro che semplice.17 Inoltre, il sistema fu concepito con quello che si potrebbe definire un “peccato originale”. Fin da subito, importanti categorie di reddito, in particolare la maggior parte dei redditi di natura finanziaria, furono escluse dalla base imponibile dell’IRPEF e assoggettate a regimi sostitutivi separati, spesso con aliquote più basse.23 Questa scelta minò alla radice il principio di onnicomprensività del reddito che la riforma stessa si prefiggeva. A ciò si aggiunse l’adozione di un “sistema classico” di tassazione dei dividendi: gli utili venivano tassati una prima volta in capo alla società con l’IRPEG e una seconda volta in capo al socio con l’IRPEF, senza alcun meccanismo di integrazione per evitare o attenuare la doppia imposizione.4 Questa impostazione creò un forte incentivo a non distribuire gli utili o a cercare forme di remunerazione del capitale fiscalmente più vantaggiose. La grande riforma, quindi, pur essendo rivoluzionaria, conteneva già i semi della sua stessa futura complicazione e dell’erosione della sua base imponibile.
3. Gli Anni ’80 e ’90: Semplificazione, Crisi e Nuove Imposte
Domare l’IRPEF: La Lotta alla Complessità e al Drenaggio Fiscale
Gli anni ’80 furono dominati dalla necessità di gestire la complessa macchina dell’IRPEF. L’elevata inflazione di quel periodo causò il fenomeno del “drenaggio fiscale” (fiscal drag), per cui gli aumenti salariali puramente nominali, destinati a compensare la perdita di potere d’acquisto, spingevano i contribuenti in scaglioni di reddito superiori, aumentando il loro carico fiscale reale senza un effettivo aumento della ricchezza.23 Questo effetto perverso distorceva la progressività voluta dal legislatore.
La risposta fu una serie di profonde semplificazioni della struttura dell’imposta. Il cambiamento più drastico avvenne nel 1983, quando il numero di scaglioni fu ridotto da 32 a 9.18 Ulteriori interventi seguirono: gli scaglioni passarono a
7 nel 1989 18 e infine a
5 alla fine degli anni ’90 con la “Riforma Visco”, un assetto che sarebbe rimasto sostanzialmente invariato per quasi due decenni.19
Anno della Riforma | Numero Scaglioni | Struttura Aliquote e Scaglioni (in milioni di Lire) | |
1983 | 9 | 18% (fino a 11), 27% (fino a 24), 35% (fino a 30), 37% (fino a 38), 41% (fino a 60), 47% (fino a 120), 56% (fino a 250), 62% (fino a 500), 65% (oltre 500) | |
1989 | 7 | 10% (fino a 6), 22% (fino a 12), 26% (fino a 30), 33% (fino a 60), 40% (fino a 150), 45% (fino a 300), 50% (oltre 300) | |
1992 | 7 | 10% (fino a 7,2), 22% (fino a 14,4), 27% (fino a 30), 34% (fino a 60), 41% (fino a 150), 46% (fino a 300), 51% (oltre 300) | |
1998 | 5 | 18,5% (fino a 15), 26,5% (fino a 30), 33,5% (fino a 60), 39,5% (fino a 135), 45,5% (oltre 135) | |
2001 | 5 | 18% (fino a 20), 24% (fino a 30), 32% (fino a 60), 39% (fino a 135), 45% (oltre 135) | |
Fonte: Elaborazione su dati 19 |
La Crisi del 1992 e la Nascita dell’ICI
L’inizio degli anni ’90 fu segnato da una grave crisi finanziaria che costrinse il governo guidato da Giuliano Amato a varare una manovra economica di emergenza.24 In questo contesto fu istituita, con il D.Lgs. 504/1992, l’
Imposta Comunale sugli Immobili (ICI), che andava a sostituire l’INVIM e altre imposte minori sugli immobili.24 L’ICI era un’imposta sul possesso di fabbricati, aree edificabili e terreni agricoli, la cui base imponibile era il valore catastale dell’immobile e la cui aliquota era decisa dai singoli Comuni entro limiti fissati dalla legge nazionale.26
L’introduzione di questa imposta in un momento di crisi la rese immediatamente un simbolo di austerità. L’ICI divenne rapidamente “la tassa più odiata dagli italiani” 24, trasformando la tassazione immobiliare da una questione puramente tecnica a un tema centrale e infuocato del dibattito politico. La sua storia successiva è emblematica di questo processo: la promessa di abolirla divenne un potente strumento elettorale, come dimostrò la campagna del 2006 di Silvio Berlusconi, che, pur non vincendo, ottenne un recupero di consensi record proprio grazie a questo annuncio.24 Questo ciclo di abolizioni (per la prima casa nel 2008) e reintroduzioni (come IMU nel 2011) ha cementato il ruolo della tassa sulla casa come una delle leve più sensibili e instabili della politica fiscale italiana.
Le Riforme di Fine Secolo
La fine degli anni ’90 vide ulteriori importanti cambiamenti, tra cui l’introduzione della “Dual Income Tax” (DIT), un regime che mirava a tassare i redditi da capitale con un’aliquota più bassa rispetto a quelli da lavoro per incentivare gli investimenti, e l’abolizione definitiva dell’ILOR, che fu sostituita dall’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive).8
4. Il Nuovo Millennio: Crisi, Riforme Strutturali e la Tassazione Immobiliare
Riforma della Tassazione Societaria: Dall’IRPEG all’IRES (2004)
Il nuovo millennio si aprì con una significativa riforma della tassazione delle società. Con il D.Lgs. 344/2003, a partire dal 1° gennaio 2004, l’IRPEG fu sostituita dall’IRES (Imposta sul Reddito delle Società).20 La riforma si inseriva in un contesto internazionale di competizione fiscale tra Paesi per attrarre investimenti. L’aliquota iniziale dell’IRES fu fissata al 33%, in lieve calo rispetto al 34% dell’IRPEG dell’anno precedente, ma destinata a scendere ulteriormente negli anni a venire.31 Questa tendenza al ribasso è stata una costante della politica fiscale societaria degli ultimi vent’anni.
Anno | Imposta | Aliquota | |
2000 | IRPEG | 37% | |
2001-2002 | IRPEG | 36% | |
2003 | IRPEG | 34% | |
2004-2007 | IRES | 33% | |
2008-2016 | IRES | 27,5% | |
2017-Oggi | IRES | 24% | |
Fonte: Elaborazione su dati 31 |
Il Doppio Shock: Crisi Finanziaria del 2008 e Crisi del Debito Sovrano del 2011
L’Italia affrontò la crisi finanziaria globale del 2008 partendo da una posizione di debolezza, con un’economia stagnante e un debito pubblico già elevato.33 La crisi si tradusse in una delle peggiori recessioni del dopoguerra, con una contrazione del PIL di quasi il 5% nel 2009.35 La situazione precipitò nel 2011 con la crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona: la sfiducia dei mercati internazionali fece impennare lo spread sui titoli di stato italiani, portando il Paese sull’orlo dell’insolvenza.33
Il Decreto “Salva Italia” e il Ritorno della Tassa sulla Casa
Alla fine del 2011, per fronteggiare l’emergenza, il governo tecnico guidato da Mario Monti varò il Decreto “Salva Italia” (D.L. 201/2011), una dura manovra di austerità fiscale.36 L’intervento più significativo e controverso fu l’introduzione dell’
IMU (Imposta Municipale Propria), che sostituiva l’ICI.39 La riforma Monti
reintrodusse la tassazione sull’abitazione principale, che era stata abolita nel 2008, una decisione che ebbe un forte impatto economico e sociale sulle famiglie italiane.41 L’IMU, inoltre, prevedeva moltiplicatori catastali e aliquote più elevati rispetto alla vecchia ICI, determinando un significativo aumento del prelievo immobiliare.37
L’Era della IUC: Il Picco della Complessità (2014-2019)
Nel 2014, nel tentativo di riordinare la finanza locale, fu introdotta la IUC (Imposta Unica Comunale). Contrariamente al nome, non era un’imposta unica, ma un “contenitore” che raggruppava tre tributi distinti 43:
- IMU: L’imposta patrimoniale sul possesso di immobili, tornata a essere esente sulla maggior parte delle abitazioni principali.
- TASI (Tributo per i Servizi Indivisibili): Una nuova imposta destinata a finanziare i servizi comunali indivisibili (es. illuminazione pubblica, manutenzione stradale). Era dovuta sia dai proprietari sia, in quota parte, dagli inquilini, e la sua base imponibile era la stessa dell’IMU, creando una sovrapposizione che generò enorme confusione.46
- TARI: La tassa sui rifiuti.
Questo sistema fu ampiamente criticato per la sua estrema complessità, avendo di fatto creato due imposte patrimoniali (IMU e TASI) che si sovrapponevano e interagivano in modo confuso.48
Il “Bonus Renzi” (2014)
Nel 2014, il governo di Matteo Renzi introdusse un credito d’imposta di 80 euro mensili (960 euro annui) per i lavoratori dipendenti con redditi compresi tra circa 8.000 e 26.000 euro.49 Non si trattava di una modifica strutturale agli scaglioni IRPEF, ma di un trasferimento monetario erogato direttamente in busta paga. L’obiettivo era sostenere i redditi medio-bassi e stimolare i consumi.49 L’impatto economico del bonus è stato oggetto di un intenso dibattito: alcuni studi ne hanno evidenziato un effetto positivo sui consumi, mentre altri lo hanno ritenuto limitato.49 La misura introdusse anche delle complessità, in particolare le cosiddette “trappole della povertà” alle soglie di reddito, dove un piccolo aumento poteva comportare la perdita dell’intero beneficio.53
5. Il Fisco Contemporaneo: Verso un Sistema a Tre Aliquote e la “Nuova IMU”
Semplificare (di Nuovo) la Tassazione Immobiliare: La “Nuova IMU” del 2020
La storia della politica fiscale italiana dimostra una natura ciclica, in cui periodi di riforme complesse sono spesso seguiti da spinte verso la semplificazione. La tassazione immobiliare ne è un esempio lampante. Dopo la parentesi della IUC, la Legge di Bilancio 2020 (L. 160/2019) ha posto fine al confuso sistema, abolendo la TASI.48
La TASI è stata di fatto assorbita dall’IMU, che è tornata a essere l’unica imposta patrimoniale comunale. Per garantire la neutralità di gettito, l’aliquota di base dell’IMU è stata innalzata allo 0,86%, ovvero la somma delle precedenti aliquote di base di IMU e TASI.48 Questa riforma, pur semplificando la vita ai contribuenti, non ha ridotto il carico fiscale complessivo, ma ha rappresentato un ritorno alla struttura pre-2014, ammettendo implicitamente il fallimento dell’esperimento della TASI.48
La Continua Rimodulazione dell’IRPEF
Anche per l’IRPEF, la tendenza alla semplificazione degli scaglioni è proseguita nel nuovo decennio, seguendo il percorso iniziato negli anni ’80.
- La Riforma del 2022 (Governo Draghi): Il numero di scaglioni è stato ridotto da cinque a quattro. È stata eliminata l’aliquota del 41% e sono state ritoccate al ribasso le aliquote per le fasce di reddito intermedie.19
- La Riforma del 2024 (Governo Meloni): Un’ulteriore semplificazione ha portato, per l’anno d’imposta 2024, il numero di scaglioni da quattro a tre. I primi due scaglioni sono stati accorpati in un’unica fascia di reddito tassata al 23% fino a 28.000 euro.23 Questa struttura a tre aliquote è stata poi resa permanente a partire dal 2025.62
Anno della Riforma | Numero Scaglioni | Struttura Aliquote e Scaglioni (in Euro) | |
2007-2021 | 5 | 23% (fino a 15.000), 27% (fino a 28.000), 38% (fino a 55.000), 41% (fino a 75.000), 43% (oltre 75.000) | |
2022-2023 | 4 | 23% (fino a 15.000), 25% (fino a 28.000), 35% (fino a 50.000), 43% (oltre 50.000) | |
2024-Oggi | 3 | 23% (fino a 28.000), 35% (fino a 50.000), 43% (oltre 50.000) | |
Fonte: Elaborazione su dati 19 |
Sfide Attuali e Dibattiti Futuri
Nonostante le riforme, il sistema fiscale italiano affronta sfide strutturali persistenti.
- Pressione Fiscale: Il rapporto tra entrate fiscali e PIL in Italia rimane tra i più alti dell’area OCSE. Il gettito dell’IRPEF, in particolare, è cresciuto in modo significativo come percentuale del PIL dagli anni ’80 a oggi.23
- Evasione Fiscale: Rimane un problema cronico che mina l’equità e l’efficienza del sistema. Vi è una forte dipendenza dai redditi da lavoro dipendente e da pensione, facilmente tassabili alla fonte (contribuiscono per circa l’85% del gettito IRPEF), a fronte di tassi di evasione più elevati per altre categorie di reddito come il lavoro autonomo.18
- Il Dibattito sulla Flat Tax: Le recenti semplificazioni dell’IRPEF sono interpretate da una parte del mondo politico come passi intermedi verso l’obiettivo di una “flat tax”, un’imposta ad aliquota unica che rimane un tema ricorrente nel dibattito pubblico.
- IRES Premiale (2025): L’ultima novità è una misura temporanea che riduce l’aliquota IRES al 20% per le imprese che investono in tecnologie avanzate e aumentano l’occupazione, a testimonianza del continuo utilizzo della leva fiscale per incentivare specifici comportamenti economici.63
Conclusione
La storia delle tasse in Italia dal 1961 a oggi è una narrazione di continua e talvolta affannosa adattabilità. Il sistema fiscale si è evoluto in risposta a profonde trasformazioni economiche e sociali, spinto dalla necessità di finanziare un welfare state sempre più costoso, vincolato dalle rigide esigenze di bilancio imposte da un debito pubblico elevato, modellato dal processo di integrazione europea e scosso dalle crisi finanziarie globali.
Da questa analisi emergono tensioni durature che hanno caratterizzato questi sessant’anni di storia. La prima è la lotta perenne tra i principi di equità e progressività, sanciti dalla Costituzione, e le esigenze di efficienza economica e competitività internazionale. La seconda è la natura ciclica delle riforme, che oscillano tra la creazione di sistemi complessi e dettagliati (come l’IRPEF del 1974 o la IUC del 2014) e le successive, inevitabili, spinte verso la semplificazione (come le riduzioni degli scaglioni IRPEF o l’abolizione della TASI). Infine, rimangono irrisolte due questioni cruciali: l’estrema sensibilità politica della tassazione sulla casa, diventata una leva elettorale più che uno strumento di finanza locale, e la sfida cronica dell’evasione fiscale, che continua a distorcere l’equità del sistema, caricando un peso sproporzionato sui contribuenti onesti.
Guardando al futuro, il sistema fiscale italiano si trova di fronte a nuove sfide che ne definiranno il prossimo capitolo: l’urgenza di integrare obiettivi di sostenibilità ambientale attraverso una fiscalità “verde”, le opportunità e i rischi legati alla digitalizzazione per migliorare la compliance e combattere l’evasione, e il dibattito mai sopito su come costruire un sistema che sia percepito come giusto, semplice e, al tempo stesso, capace di promuovere la crescita economica del Paese.